Israele, Hamas e il patetico tifo da stadio

Israele, Hamas e il patetico tifo da stadio

Il tema è delicato e fin qui non si va oltre la scoperta dell'acqua calda. Ma è sempre bene sottolinearlo. Le ultime settimane hanno descritto un quadro complesso, non tanto in termini di conflitto - le soluzioni sono e resteranno poche e limitate - quanto a livello di dibattito pubblico. Perché un dibattito scadente, violento, irragionevolmente polarizzato non può che generare risposte e soluzioni talvolta scarsamente realistiche, perlopiù fondamentalmente vuote. E ciò fa del male al conflitto stesso, da sempre attanagliato da speculazioni, ideologiche e non, di ogni genere e forma.

 

La guerra richiede soluzioni

Il conflitto israelo-palestinese c'entra poco. E questo è il primo dato. A rilevare, al momento, sono due elementi: l'attacco terroristico targato Hamas e la brutale reazione di Israele. Per il primo, non può non esserci condanna, non foss'altro per il totale disinteresse nei confronti del benessere dei palestinesi. Del resto, da un'organizzazione per definizione antisemita non può che derivare tutto il male perpetrato in queste settimane. L'utilizzo della popolazione civile come scudo, le pratiche barbariche ampiamente documentate, l'attacco a uno Stato legittimo - dall'operato più che controverso - sono solo alcuni degli elementi che dovrebbero condurre chiunque si ritenga mediamente assennato a una valutazione profondamente negativa. Vi è poi Israele, le cui atrocità belliche, se dimostrate, non potranno restare impunite a livello internazionale. E in tal senso, un appello a umanità e ponderatezza appare doveroso. La questione, però, non si esaurisce qui. Le guerre, infatti, richiedono soluzioni, non faziosi e inconcludenti moralismi. Soluzioni, non favole. Il cessate il fuoco, ora come ora, è annoverabile tra quest'ultime. Israele, da sempre oggetto di attacchi esterni, non arresterà la propria reazione fin quando non riterrà castrato ogni temibile tentativo di offensiva. A fronte di ciò, appare già di per sé inopportuno concentrarsi sulle origini delle ostilità tra israeliani e palestinesi, questione ampiamente distante dalla situazione effettiva, dunque dalle priorità dei sopracitati popoli.

 

Scontri tra tifoserie

Nel bel mezzo di attacchi sanguinosi e brutalità di ogni genere, qui in Occidente ci si è, invece, concentrati a sostenere indiscriminatamente la propria fazione. La politicizzazione di un fenomeno che di politico non dovrebbe aver nulla è fenomeno certo non nuovo al Belpaese (e non solo ad esso). Da un lato si può osservare chi sostiene di stare "con i palestinesi", nonostante appaia difficile immaginare - in contrapposizione alla sua vaga collocazione - un individuo realmente retto da principi democratici e, al contempo, capace di ambire al disconoscimento dei diritti del popolo palestinese stesso, ancor peggio alla sua cancellazione. Dall'altro, vi è poi chi difende a spada tratta Israele, negando - e non rinviando a giudizio - l'inaccettabile cruenza del Governo di Netanyahu, oltre che dell'esercito. A mancare per buona parte del dibattito - come spesso accade quando si configura un approccio populista - è il giusto focus: le origini delle ostilità e il documentato sopruso israeliano precedente agli attacchi, al momento, non hanno alcuna rilevanza nel giudizio di merito relativo all'invasione di uno stato legittimo da parte di un organizzazione terroristica.

 

Conoscere il contesto

Risulterebbe fondamentalmente insignificante un'analisi dell'integrità democratica di Israele senza aver appreso precedentemente il contesto entro cui questa sorge. Israele è circondato da Stati che per decenni hanno strumentalizzato il conflitto palestinese con l'obiettivo di abbattere l'ultimo caposaldo dell'Occidente nel Medio Oriente. Basti vedere i regimi che entro tali stati vigono. Dunque, è possibile trarre come prima conclusione che il grado di civiltà di un Paese deve essere messo in relazione al contesto in cui esso si trova. In verità, si spera che questo fosse noto ai più già prima dell'invasione di Hamas. A ciò è bene aggiungere il fatto che Netanyahu è stato eletto democraticamente e che in "Parlamento" sono presenti rappresentanze "palestinesi". Il Governo vigente, infatti, è il prodotto di un processo democratico, sebbene il suo operato abbia oltrepassato i confini della democrazia così come intesa in Occidente (e non solo). In passato, altre tornate elettorali avevano determinato notevoli mediazioni tra i due popoli, a dimostrazione della potenziale reversibilità dei suddetti soprusi attraverso meccanismi meno sconsiderati dei piani di Hamas. Si arriva quindi al nocciolo della questione. In quale scenario realistico è bene confidare?

 

Come prima cosa, per la stabilizzazione delle tensioni, è d'indubbia urgenza la neutralizzazione di Hamas. Solo in un secondo momento sarà possibile ambire a un dietrofront del popolo israeliano: quest'ultimo coglierà forse in Netanyahu, prima ritenuto scudo dalle minacce orientali, l'unica, grande minaccia. E comprenderà, si spera, l'importanza di dialogo e rispetto prima, del riconoscimento dei palestinesi poi, onde evitare il confronto con chi (Hamas, ndr) il confronto non sa proprio cosa sia. Con tale prospettiva non s'intende in alcun modo banalizzare una situazione d'immensa complessità, bensì fornire una verosimile e logica evoluzione dei fatti che potrebbe condurre alla fine di queste atrocità. È nei fatti impossibile delineare scientificamente le fasi di un simile processo, ma resta pur sempre un tentativo di maggiore costruttività in un oceano di incresciose faziosità.

 

Due popoli, due Stati. E troppe speculazioni.

 

A cura di

Valerio Antoniotti