A una società appiattita su attitudini disfattiste e nichilistiche non può che corrispondere una gestione della res publica contrassegnata da disdicevoli politicantismi. O viceversa. Nel tentativo di analizzare un quadro nel suo complesso già noto e ripudiando velleitarie ricostruzioni dei nessi causali che ne hanno determinato la formazione, è fondamentale far ricorso a opere, posizioni e teorie succedutesi nel tempo. Mediante quest'ultime diviene maggiormente agevole l'individuazione di una significativa predisposizione del Belpaese a un'assente, o vuota, coscienza politica. Già nel lontano 1942 - ma anche ben prima - il neonato Partito d'Azione, caratterizzato da un'opinabile intransigenza morale, tentava di concentrare l'attenzione sul suddetto problema: tale visione non ambiva alla plasmazione di uno Stato etico, bensì alla "reintegrazione della sanità morale" (Guido De Ruggiero) in una prospettiva laica e liberale.
Un dovere civico inderogabile
L'espressione del sopracitato co-fondatore del Partito d'Azione trasmette a pieno la totale instabilità di un elemento d'imprescindibile importanza entro qualsiasi realtà democratica. È bene, però, non confondere la presa d'atto di una simile tendenza con il disconoscimento di modelli positivi come il Risorgimento, sovente richiamato da membri e simpatizzanti del partito stesso. Gli azionisti, in particolare coloro allineati alla concezione gobettiana, ritenevano che il ventennio fascista avesse favorito la totale emersione di un mostro parzialmente dormiente, ma da sempre insito - e si spera non intrinseco - nel popolo italiano. Altrettanto significativo quanto scrive lo storico Adolfo Omodeo nel gennaio del 1945: "Occorre […] ravvivare la coscienza positiva della politica, come di dovere civico inderogabile, come di controllo incessante di idee e di prassi, proposito insomma d’influire e d’agire, sia pure a scadenza non sempre prossima, sulle sorti del paese". Ciò che rileva è la piena consapevolezza della portata di una trasformazione di questo genere e l'indubbia considerazione dei tempi necessari perché essa abbia un'effettiva attuazione.
Nonostante i brevi cenni storici, è d'immediata comprensione la stretta connessione che intercorre tra la diffusione di una rinsaldata coscienza civile e la delineazione di un modus operandi di buon senso, ancor prima che ideologico. Sarebbe, infatti, irrealizzabile una simile reintegrazione se, contestualmente, si intrecciassero i valori cardine di una solida coscienza civile con una qualsivoglia istanza di natura meramente politica. Il risveglio di tale coscienza è inevitabilmente svincolato da qualunque orientamento che non sia quello di generale democraticità: in caso contrario la solidità cui poc'anzi si accennava verrebbe meno in principio, ergo non sorgerebbe.
Alla ricerca di stabilità
Tutto, anche in questo caso in maniera inevitabile, riconduce ai giorni odierni. Una società figlia di proteste, progresso, forti tensioni, tetre e inquietanti parentesi. Un recente passato che sembra svanire sempre più e, soprattutto, non accennare a imminenti ritorni. Eppure, se queste sono le immediate conseguenze, è evidente che una sana e stabile coscienza politica non trovò luogo neppure negli anni di vigoroso fermento politico. A tal proposito, è bene far rapidamente ritorno alla visione gobettiana, che imputava al cosiddetto carattere storico degli italiani lo scarso radicamento dell'elemento morale. Un carattere individualista, conformista, opportunista e indifferente alle questioni politiche, abile e scaltro nella gestione dei propri interessi personali, agevolmente modellabile in quelli generali. Vi sono numerosi tentativi mirati all'individuazione delle cause scatenanti e la maggior parte di questi suggeriscono una scarsa responsabilizzazione del governo nei confronti del popolo negli anni successivi all'Unità. Una criticità, non a caso, rinvenuta proprio da Giuseppe Mazzini, fondatore dell'omonimo partito nel 1853. La varietà dei fattori determinanti impedisce una ricostruzione unitaria del fenomeno e richiede una ponderata valutazione per ogni singolo collegamento portato a termine, anche se catalogabile come mero accostamento.
Quel che è certo è che, ad oggi, il mostro in questione ha cambiato forma, oltre ad aver probabilmente accresciuto le risorse cui attingere per espandersi ulteriormente. La sensazione di totale distacco dalla cosa pubblica, quasi sempre di assoluta impotenza, è spesso seguita da poche e ritrite frasi dalla vieta e sconfortante attitudine. Un pervasivo senso di tradimento inonda gli animi di una porzione sempre maggiore di italiani e gli allarmanti dati sull'astensionismo, come ovvio, ne costituiscono la massima rappresentazione. Ma è davvero "tutta colpa della politica"? La tenebrosa degenerazione da popolarismo a populismo e i molteplici fallimenti susseguitisi nel tempo non possono certo essere asserviti a logiche meramente autoassolutorie. La bieca coscienza politica che va in vacanza figura come ottima rappresentazione dello stato attuale: una coscienza resa trista dall'odio e dalla rabbia si prende una meritata pausa per far ritorno, più robusta che mai, all'abituale e spesso spicciolo scredito di tutti i giorni. Senza fornire soluzioni. Semplicemente puntando il dito contro un nemico amorfo e apparentemente eterno. Ecco, dunque, l'emersione del rapporto ossimorico tra aggettivo e concetto: come può la sopra definita coscienza politica essere avvezza a posizioni biecamente cieche? E, soprattutto, come può accettare il presunto vuoto incolmabile tra cittadino e res publica? Semplicemente non può. Quanto accade è quindi indubbiamente connesso a una netta assenza di coscienza, civile prima, politica poi.
Non certo una scoperta. Quel che appare, forse, meno scontato è comprendere il fenomeno tanto bene da poterlo estinguere. Ma anche questa volta, con quasi assoluta certezza, si può dire che la soluzione non proverrà né dai politici che da tale contesto traggono vantaggio né tantomeno dai cittadini che se ne servono per autoassolversi più o meno inconsapevolmente.
La bieca coscienza politica va in vacanza. E si spera non ritorni.
A cura di
Valerio Antoniotti